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Revista Internacional de Filosofía Iberoamericana y Teoría Social

Universidad del Zulia, Maracaibo, Venezuela Facultad de Ciencias Económicas y Sociales

Centro de Estudios Sociológicos y Antropológicos (CESA)


AÑO 23, n°80

Enero - Marzo

2 0 1 8


NOTAS Y DEBATES DE ACTUALIDAD

UTOPÍA Y PRAXIS LATINOAMERICANA. AÑO: 23, n°. 80 (ENERO-MARZO), 2018, PP.183-190 REVISTA INTERNACIONAL DE FILOSOFÍA Y TEORÍA SOCIAL

CESA-FCES-UNIVERSIDAD DEL ZULIA. MARACAIBO-VENEZUELA. ISSN 1315-5216 / ISSN-e: 2477-9555


Disagio “della” civiltà o disagio “nella” civiltà? Una discussione critica


Discontent ‘in’ Civilization or the Civilisation ‘of’ Discontent? A Critical Discussion.

Giuseppe RACITI

Università degli Studi di Catania, Italia.


Riassunto


Per Freud non ha senso dire: il disagio della civiltà, perché la civiltà, rettamente intesa, serve a eliminare i disagi o comunque a contenerli entro un regime artificialmente positivo; per lui, piuttosto, ha senso dire: il disagio nella civiltà (precisamente come recita il titolo originale), perché in tal caso si tratta di individuare il fattore che corrompe la civiltà dall’esterno. A partire dalla seconda metà degli anni Venti, superando radicalmente le risultanze della Massenpsychologie (1921), Freud indica tale fattore nell’individuo, nel singolo (il soggetto del liberalismo politico e/o economico) che pretende di abitare la Kultur e di prenderne incondizionatamente possesso.

Parole chiave: Disagio; civiltà; individuo; comunismo.

Abstract


From the point of view of Freud, it makes no sense to say: the discontent of civilization, because civilization, properly understood, serves to eliminate the discontents or to keep them in an artificially positive regime; for him it is meaning to say: the discontents in civilization (precisely as the original title says), because in this case it is about identifying the factor that corrupts civilization from the outside. From the second half of the 1920s, by far exceeding the results of the important essay entitled Massenpsychologie (1921), Freud identifies this factor in the individual instance or individual being (the subject of political and/or economic liberalism) who pretends to inhabit civilization and to exercise a domination on it according to its interests.

Keywords: Discontent; civilization; individual;

communism.



Recibido: 29-10-2017 ● Aceptado: 03-12-2017


  1. Cominciamo da un fatto curioso, ma istruttivo. Nel noto seminario dedicato all’Etica della psicoanalisi (1959-1960), Lacan sottolinea in un punto l’importanza del saggio freudiano Das Unbehagen in der Kultur (1930). Niente a che vedere, afferma, con un testo occasionale, con una specie di “exursion dans le domaine de la réflexion philosophique”; piuttosto, “Le Malaise dans la civilisation est un œuvre essentielle, première dans la compréhension de la pensée freudienne et la sommation de son expérience” (Lacan: 1986, p. 15). Torneremo tra poco sulla importanza di questo giudizio. Sì, perché il fatto curioso da cui vogliamo partire riguarda una cosa diversa, apparentemente molto marginale, vale a dire la versione italiana di questo brano di Lacan.

    L’ed. francese del saggio di Freud a cui fa riferimento Lacan suona Malaise dans la civilisation. Il titolo riprende alla lettera quello tedesco. Nella versione italiana del seminario lacaniano il traduttore cita invece il testo di Freud e quello di Lacan allo stesso modo: Il disagio della civiltà.

    Doppio errore, dunque. Nei riguardi di Freud e di Lacan. E, di rimando, strano, vertiginoso effetto: traduzione di una traduzione e doppia alterazione dell’originale. Quasi una mise en abyme.

    Ma veniamo al punto: Freud non scrive il disagio della civiltà, non usa un genitivo soggettivo (= la civiltà genera disagio), ma scrive il disagio nella civiltà, in der Kultur (= il disagio si verifica all’interno della civiltà, ma è dovuto a cause esterne).

    Ora, perché parlo di errore e non di semplice svista? Perché, insomma, enfatizzo una questione che

    da noi, nei nostri modi linguistici, si direbbe di “lana caprina”?

    Per due motivi. Il primo è che il titolo scorretto o infedele (Il disagio della civiltà) si impone in Italia a partire dal 1971, anno della prima ed. Boringhieri, dopodiché si attesta regolarmente, e direi acriticamente, nelle le altre versioni italiane (Newton Compton, Piano B, Fermento ecc.), con l’eccezione, nel 2010, dell’ed. Einaudi curata da Stefano Mistura, dove il titolo del testo viene restituito letteralmente: Il disagio nella civiltà1. Il secondo motivo dipende formalmente dal primo ma investe il dominio dei contenuti. Il disagio non dipende dalla civiltà. La civiltà, per Freud, non è fonte di disagio, ma, giusto al contrario, di agio. Se c’è disagio, e indubbiamente c’è, esso è la conseguenza di una distorsione a danno del concetto di civiltà. Sicché, per scovare il problema, occorre anzitutto definire la civiltà iuxta propria principia. È precisamente il compito che si attribuisce Freud nel saggio del Trenta. Un compito enorme.

  2. Più sopra abbiamo riportato il giudizio di Lacan per sottolineare, traverso le parole autorevoli di un grande interprete, l’importanza di questo testo nell’economia dell’intera opera freudiana. Per Lacan si tratta addirittura della “summa” di tutta l’esperienza psicoanalitica freudiana. Certo, è una valutazione generosa, addirittura iperbolica, e bisognerà capire, nelle rapide considerazioni che seguono, qual è il fondamento teorico e pratico (senza intendere qui solo la pratica psicoanalitica) su cui si basa.

    Il primo problema che incontriamo su questa via è ancora una volta terminologico. Questo non deve stupire, dato che la psicoanalisi è anzitutto una rigogliosa, se non vogliamo dire rigorosa, scienza o esperienza della parola2. Il termine Kultur nella lingua di Freud copre un campo semantico pregnante: significa a un tempo “civiltà” e “cultura”. Riguarda il patrimonio culturale di una vasta area geopolitica (in questo caso la cultura tedesca, senza tuttavia un esplicito riferimento alla nazione tedesca; vi appartengono, allo stesso titolo, Franz Kafka e Thomas Mann) e al tempo stesso si dilata fino a innervare i fondamenti civili di un contesto assai più ampio: il plesso europeo. In altre parole, Freud pone un problema


    1. In effetti, la prima ed. italiana del saggio di Freud, uscita nel Quarantanove (Scienza Moderna, Roma), recava il titolo corretto. L’equivoco si instaura dunque dopo il 1949 e dura a un dipresso fino al 2010. È sorprendente constatare come il problema si riverberi fino ai giorni nostri nella vetrina di IBS, una delle principali librerie elettroniche in attività in Italia: malgrado la foto della copertina col titolo in bella evidenza, l’ed. Mistura viene presentata, o sia “tradotta”, secondo il modello Boringhieri.

    2. Scienza dell’esperienza della coscienza (Wissenschaft der Erfahrung des Bewußtseins): così suonava la prima intitolazione di un grande libro tedesco che traccia la storia dello spirito europeo: Hegel (1807).


    locale e un problema generale. Parla della cultura di lingua tedesca e insieme della civiltà europea. Parla della cultura tedesca nel contesto europeo. Tecnicamente, egli pone un problema di filosofia della storia.

    Già da queste prime indicazioni il giudizio di Lacan diventa più plausibile. Nel porre un problema di filosofia della storia, che concerne il carattere essenzialmente europeo del fenomeno “germanico”, Freud ambisce effettivamente ad attingere la sommation del proprio pensiero. Per Freud si tratta di tracciare uno schema concentrico. Il cerchio della cultura è inscritto in quello della civiltà. La cultura di lingua tedesca, malgrado la ricca tradizione di cui dispone, acquista un senso solo in relazione alla civiltà europea. Ed è questo, di là dalla connotazione puramente geografica, il senso filosofico-storico dell’espressione mitteleuropa.

  3. L’ultima “caratteristica di una civiltà”, scrive Freud, ultima “ma non certo meno significativa”, è quella che concerne il modo in cui sono “regolati i rapporti fra gli esseri umani, ossia le relazione sociali” (Freud: 1987, p. 227). Dalla Kultur dipende dunque tutta la complessa dinamica della socializzazione. E, di rimando, il modo in cui si articolano i processi di socializzazione rivela lo stato di salute o di disagio della civiltà. Per non complicare inutilmente (o artatamente) le cose, diciamo subito che la socializzazione riguarda in primo luogo i problemi della convivenza umana. La vita sociale è quella che scaturisce dalla convivenza. Di conseguenza, i guasti della convivenza sono i guasti della socializzazione. Su questo punto nodale Freud è insolitamente drastico, o sia: poco scientifico e molto politico; egli afferma, dunque, che “la convivenza umana risulta possibile solo (nur) quando viene a crearsi una maggioranza che è più forte (stärker) del singolo e che resta compatta contro ogni singolo (gegen jeden Einzelnen)” (Ibíd.,p.225). Questa posizione così netta deriva da una constatazione “clinica”, che si esplicita in questi termini: il diritto del singolo, o, come si esprime Freud, il “‘diritto’ al potere del singolo”, è la fonte stessa della “violenza brutale” (rohe Gewalt) (Ibídem). La violenza è con ciò un portato diretto della posizione dell’individualità. Sul piano individuale, l’uomo è violento, anzi brutalmente violento. Di contro, il punto di vista collettivo rappresenta un correttivo alla violenza individuale. A segno che la “sostituzione del potere del singolo con quello della comunità (Gemeinschaft) è, sotto il rispetto della civiltà (Kultur), il passo decisivo” (Ibídem).

    I termini del dilemma sono ormai chiari: comunità contro individuo; ma anche, e più drammaticamente, individuo contro comunità. Il “disagio” nella civiltà, dipende dal primato dell’individuo sulla comunità. Si tratta, con ogni evidenza, di un problema politico.

    Ma liberiamo il discorso di Freud dall’equivoco più insidioso. Freud non dice questo: bisogna modificare la Kultur in uno dei suoi aspetti, cioè il problema dell’individualismo. No; Freud afferma un’altra cosa, più potente; dice che in seno a una Kultur, e dunque sulla base dei presupposti, dei fondamenti del concetto di Kultur, non c’è posto per l’individuo, non c’è spazio per le manifestazioni delle singolarità. La Kultur nasce dalla rinuncia alla singolarità. Questa puntualizzazione è importante, perché la Kultur, secondo Freud, non ha bisogno di correttivi interni. La Kultur, rettamente intesa, è sana. L’individuo, quale che sia la sua costituzione, si colloca da sempre fuori dal cerchio della Kultur. Non si tratta, dunque, di armonizzare la Kultur alle esigenze dell’individuo (il falso problema di ogni liberalismo politico); si tratta invece di espellere l’individuo che aggredisce dall’esterno la Kultur, a quel modo che un qualsiasi organismo espelle, per conservarsi, i batteri letali.

    Ecco perché il titolo Il disagio della civiltà è sottilmente fuorviante. Esso, infatti, suggerisce l’idea che la civiltà, di per sé, sia soggetta a determinate patologie e possa ammalarsi per cause endogene. Dal testo di Freud si ricava invece che non esiste, per così dire, una malattia “autoimmunitaria” della civiltà. La civiltà deve difendersi non già da attacchi genetici, ma da vere aggressioni esterne. Il suo problema non è l’alterazione, ma l’alterità. E rispetto alla civiltà l’alterità è il singolo.

  4. Civiltà è la dove c’è comunità, Gemeinschaft. Di nuovo un problema terminologico. Perché, poniamo, Freud non dice Gesellschaft, “società”? Possiamo formulare qualche ipotesi. Cornelia


    Schmitz-Berning c’informa di un fatto piuttosto inquietante: Gemeinschaft è uno Schlagwort, una parola d’ordine del nazionalsocialismo (Cfr. Schmitz-Berning: 1997-2007, p. 261). Tuttavia, è noto, la dicotomia Gemeinschaft-Gesellschaft risale a Tönnies (1887). Nel Ventinove, quando Freud scrive la prima parte del Disagio, il nazismo era alle porte. Era nell’aria. Era anche nei fatti: il putsch di Monaco s’era consumato sei anni prima, nel Ventitré. Freud conosceva le teorie di Tönnies? Non si può escluderlo. Possiamo però escludere, in linea di massima, una convergenza tra i due concetti di Gemeinschaft.

    Per Tönnies Gemeinschaft vale communio totius vitœ (Cfr. Tönnies: 1887, p. 4) essa s’intreccia alla “vita reale e organica”, in netta contrapposizione alla “Bildung ideale e meccanica” che contrassegna “il concetto di società (Gesellschaft)” (Ibíd., p. 3.). In sintesi: organismo vs. meccanismo; è una polarità che attraversa tutta la cultura tedesca tra Otto e Novecento (Ibíd., p. 4). Ma qui il punto è un altro. La Gemeinschaft di Tönnies non esclude l’insorgenza soggettiva in quanto tale. Tönnies censura il carattere “contrattuale” e “quantitativo” del soggetto (Ibíd., p. 229), ma a tutto vantaggio dei suoi aspetti “qualitativi”. Il pericolo, argomenta, è la trasformazione del soggetto in una specie di entità spettrale, disincarnata, autoreferenziale. Egli rivendica cioè l’importanza del connettivo intersoggettivo3. Ma questo legame profondo, ancestrale, totemico, tra i componenti di una comunità richiama un genere di rapporti che potremmo definire inconsci. Così, se la preoccupazione di Tönnies è la rarefazione di ogni istanza autenticamente soggettiva, e diciamo pure organico-inconscia, nel quadro razionalizzante e impersonale della Gesellschaft, per Freud, all’opposto, si tratta di versare il senso della Gemeinschaft sul freddo e sterile stampo della Gesellschaft. Questa operazione è resa cogente e in certo modo legittima dalle drammatiche risultanze della prassi psicoanalitica, in particolare nel contesto della Grande Guerra. Il carattere pulsionale, “inconscio”, della singolarità (per Tönnies il tratto connotativo dell’organicità) è propriamente la forza patogena che compromette l’assetto “artificiale” o spirituale della Kultur.

    “Si entra nella società come in un paese straniero”, rileva suggestivamente Tönnies. Per Freud, al contrario, il paese straniero è l’inconscio. L’espressione di Freud, tolta dalle Vorlesungen zur Einführung in die Psichoanalyse, è inneres Ausland: l’inconscio è un “paese straniero” che si dilata non all’esterno, come un äußeres Ausland, ma all’interno (Cfr. Freud: 2010, p. 496). Come la comunità teorizzata da Tönnies.

    L’inconscio è l’aspetto interno, “infernale”, dell’esteriorità. Meglio restarne fuori, assicura Freud; giacché è proprio questa “distanza” a fornire la garanzia spirituale che preserva la convivenza sociale dagli attacchi patogeni scatenati dal carattere pulsionale, libidico o “famelico” (Freud: 1905) (in una parola: barbarico) dell’individuo.

  5. “Die individuelle Freiheit ist kein Kulturgut”: La libertà dell’individuo non è un portato della Kultur (Freud: 1987, p. 226). Questa affermazione non cessa di stupire ogni lettore convenzionale di Freud, specie per le conseguenze politiche che ne derivano. Nessun lettore del Disagio della civiltà può avere dei dubbi circa la radicale estraneità di Freud, almeno dell’ultimo Freud, al liberalismo. Ma per capire fino in fondo il significato di questa affermazione, in cui si condensa la sommation del freudismo, può essere utile ricorrere a quel che scriveva, negli stessi anni, il “fascista” Malaparte4 .


    3 “Die Theorie der Gesellschaft construirt einen Kreis von Menschen, welche, wie in Gemeinschaft, auf friedliche Art neben einander leben und wohnen, aber nicht wesentlich verbunden, sondern wesentlich getrennt sind, und während dort verbunden bleiben trotz aller Trennungen, hier getrennt bleiben trotz aller Verbundenheiten” (Cfr. Tönnies: 1887, p. 46).

    1. Nel 1929 Malaparte è a Mosca per conto del quotidiano La Stampa. L’intenzione è quella di descrivere, da una posizione critica, cioè congeniale al regime fascista, gli effetti della rivoluzione bolscevica. Ma il libro che ne ricava, Intelligenza di Lenin (1930), va in direzione opposta. Si tratta infatti di un’analisi attenta e sorprendentemente spregiudicata della situazione sovietica e del “genio” leniniano. Ancora oggi il testo si segnala per la sua inalterata lucidità di giudizio e fa il paio con la straordinaria corrispondenza per il Corriere della sera dal fronte russo (1941), pubblicata con il titolo Il Volga nasce in Europa.


      Il soggiorno a Mosca del Ventinove induce il pratese a riflettere sulla questione della libertà nell’Unione Sovietica. Il punto di vista liberale è scontato: i sovietici hanno soppresso ogni forma di libertà; in particolare, la rivoluzione prospera a detrimento della libertà individuale. Malaparte sposta il problema su un altro piano. Parlare di mancanza di libertà è inadeguato, perché in Russia non vige una condizione di schiavitù. Del resto, l’alternativa libertà o schiavitù è insidiosa, ideologica. Essa è alla base dell’atteggiamento liberale. Più corretto è fissare un altro genere di alternativa, quella tra libertà e potere. La rivoluzione bolscevica, argomenta Malaparte, ha sacrificato la libertà sull’altare del potere. Essa non poggia sulla mancanza della libertà, cioè sulla schiavitù, ma sulla rinuncia alla libertà, cioè sul potere. Il potere nasce infatti da questa rinuncia. Si esercita il potere solo a condizione di rinunciare alla libertà. Il discorso di Freud perviene alla stessa conclusione. La radice della civiltà è la rinuncia. Più precisamente, la radice della civiltà è la rinuncia alla libertà pulsionale rivendicata dal singolo. Questa rinuncia (tecnicamente: questa rimozione) è il presupposto del potere della Kultur.

      Potrà sembrare bizzarro accostare personalità e vicende così diverse come quelle di Freud e Malaparte. Ma a ben vedere non è così. Basterà ricordare, per es., che il numero 8 della rivista Prospettive (ottobre 1939), diretta da Malaparte, contiene un necrologio di Freud affidato alla penna sublime di Mario Praz. Il caso è degno di nota perché il regime fascista aveva proibito la circolazione delle opere di Freud a seguito delle leggi razziali, promulgate appena l’anno prima. Il necrologio di Freud acquista dunque il significato di un atto di resistenza, tutt’altro che simbolico, al regime. E non è esattamente la stessa cosa, non sul piano storico, prendere questa iniziativa sotto il fascismo o in clima di Guerra Fredda, come nel caso di Eros and Civilization di Herbert Marcuse.

  6. La tesi di Freud è limpida e dirompente. Le risultanze del lavoro analitico mettono capo all’“assicurazione” (Versicherung) (Freud: 1987, p. 225) che soltanto la Geminschaft, nella peculiare accezione freudiana, rappresenta un’alternativa, la sola praticabile, allo strapotere del singolo; solo la Gemeinschaft può arginare le prerogative “organiche” dell’unico e la sua proprietà. La proprietà dell’unico, per riprendere e parafrasare il celebre concetto stirneriano, è la violenza e segnatamente la “violenza brutale” (rohe Gewalt). La violenza dell’inconscio.

Questa posizione presenta un ulteriore approfondimento. Il regime della Gemeinschaft, la cui natura, sottolinea Freud, è scopertamente etica (Ibídem ), non contempla al suo interno alcun tipo di raggruppamento, sia esso una “casta”, un “partito” o una “élite”; non fanno eccezione neppure gli “strati sociali” (Bevölkerungsschichte) (Ibíd., p. 226). Freud rileva infatti una contraddizione insanabile tra i concetti di concentrazione (a qualsiasi livello) e di etica. Non può esistere l’etica di un gruppo. Un gruppo purchessia, proprio in quanto tale, proprio perché si stacca dalla totalità, rinuncia per ciò stesso all’etica. L’etica non riguarda nessuno in particolare, ma non esattamente nel senso universalistico e aprioristico di ascendenza kantiana5. L’etica freudiana si definisce per negationem: essa è ciò che l’individuo non è.


  1. Più che a Kant (su cui torneremo tra poco), questo aspetto della riflessione freudiana fa pensare a Spinoza: non solo o non tanto per le patenti affinità concettuali tra le nozioni di libido e conatus (messe già in luce da Hampshire (1962, pp. 141-144), e poi magistralmente investigate da Vaysse (1999, pp. 51-74), ma anche per il concetto spinoziano di assolutismo democratico (l’impe- rium democratico inteso come “totalità”, come omnino absolutum imperium) sviluppato in certi ardui passaggi del Trattato politico, iniziato nel 1676, ma interrotto nel 1677, per la morte del filosofo. Su questo tema di straordinaria importanza per la moderna teoria politica, rimando a Raciti (2004, pp. 149-164) e relativa bibliografia. Per quanto concerne il rapporto tra Freud e Spinoza, segnalo il lavoro di Mack (2010). A p. 198 Mack cita il seguente brano, tratto da una lettera di Freud a Lothar Bickel, del giugno 1931: “I readily admit my dependence on Spinoza’s doctrine. There was no reason why I should expressly mention his name, since I conceived my hypotheses from the atmosphere created by him, rather than from the study of his work. Moreover, I did not seek a philosophical legitimation”. Un prospetto bibliografico sintetico ma esauriente sull’argomento, si trova in Bodei (2000, p, 327) in nota. Infine, non sarà certo un caso se il massimo interprete di Freud, Jacques Lacan, trascrive sulla prima pagina della sua tesi, che diventerà il suo primo libro (De la psychose paranoïaque dans ses rapports avec la personnalité, 1932), la proposizione LVII del libro III dell’Etica: “Quilibet uniuscujusque individui affectus ab affectu alterius tantum discrepat, quantum essentia unius ab essentia alterius differt”.


    L’idea di una comunità elitaria è parimenti una contraddizione in termini: la comunità, come l’etica di cui è la replica politica, non tollera separazioni, tagli, restrizioni. Ogni “partito”, incalza Freud, si comporta di fatto come un macroindividuo. La comunità elitaria è solo un “individuo dispotico” (ein gewalttätiges Individuum) (Ibídem). E come tale è strutturalmente affine e connessa all’individuo, ma molto più pericolosa, perché più ingente, più potente.

    È facile cogliere in questi accenti tutta l’ostilità di Freud alla situazione politica del suo tempo. Ma anche qui occorre fare delle distinzioni. L’atteggiamento di Freud nei confronti della Räterrepublick del Diciannove si riflette, in guisa assai negativa, nella Massenpsychologie del Ventuno (Raciti: 2015, pp 123-140). Ma nel Ventinove, al momento di scrivere la prima parte del Disagio, il suo libro “più tetro e per molti aspetti più incerto” (Gay: 1988, p. 458), Freud matura in realtà un’altra visione, che comporta una notevole dilatazione della sua percezione politica. È infatti in questione la rivoluzione sovietica e il problema del comunismo. Questo cambiamento si fa in certo modo tangibile nel Trentadue, nell’ultima lezione del secondo ciclo, la trentacinquesima, da leggersi come un vero e proprio testamento filosofico, che Freud intitola Über eine Weltanschauung.

    La psicoanalisi non può essere una Weltanschauung, perché con questo termine (e si riaffaccia anche qui la peculiarità della lingua tedesca) s’intende in primo luogo una visione coerente della realtà (ein lückenloses und zusammenhängendes Weltbild). Ma il punto è che la realtà, come afferma con forza Freud, è costitutivamente incoerente (Cfr. Freud: 2010, p. 593). La visione incoerente, “incompiuta” (Ibíd.,

    p. 615), della realtà è propriamente la visione scientifica. La visione coerente è quella religiosa e solo in

    parte, cioè metodologicamente, quella filosofica6.

    Il vero nemico, dice Freud, il “nemico serio” (der ernsthafte Feind) (Ibíd., p. 593), è la religione; il suo potere è “immenso” (eine ungeheure Macht) (Ibíd., p. 594). Ma invece di impegnarmi in una goffa parafrasi della celebre “confutazione” dell’impulso religioso (sorta di laico salterio, da riprendere e meditare periodicamente, specie in questo nostro orribile clima teocratico), vorrei cercare di agguantare, di slancio, il nesso tra eticità e religione, che Freud opportunamente discute in relazione a Kant.

    A un certo punto Freud pone una domanda tanto precisa quanto disarmante: Was soll die Aufklärung über die Entstehung der Welt mit der Einschärfung bestimmter ethischer Vorschriften zu tun haben? (Ibíd., p. 595). La risposta si trova in Kant. Ich erinnere Sie, dice Freud rivolto alla sua platea fittizia7, an den berühmten Ausspruch Kants, der den gestirnten Himmel und das Sittengesetz in unserer Brust in einem Atem nennt (Ibíd., p. 596).

    Certo, questo è un Kant aneddotico, di seconda mano, forse orecchiato; ma sotto la penna di Freud l’aneddoto rivela di colpo profondità insperate. A tutta prima la realtà astrale non può avere niente a che vedere con le nostre preoccupazioni morali. La réalité, osserva a questo riguardo Proust, est quelque chose qui n’a aucun rapport avec les possibilités, pas plus qu’un coup de couteau que nous recevons avec les légers mouvements des nuages au-dessus de notre tête. E nondimeno, suggerisce Freud, Kant “sfiora una grande verità psicologica”. Questa: l’istanza celeste, “dio”, ha in realtà un’origine “umana troppo umana”, nel senso che è una proiezione dell’”istanza parentale”. Il Padre della religione non è che il Vater della nostra infanzia. Da questo falso empireo della religione, come dire dall’inferno della nostra


  2. “Methodisch geht (die Philosophie) darin irre, daß sie den Erkenntniswert unserer logischen Operationen überschätzt und etwa noch andere Wissensquellen wie di Intuition anerkennt. Und oft genug meint man, der Spott des Dichters (H. Heine) sei nicht un- berechtigt, wenn er vom Philosophen sagt: ‘Mit seinen Nachtmützen und Schlafrockfetzen / Stopf er die Lücken des Weltenbaus’” (Ibíd., pp. 593-594).

  3. Com’è noto, il secondo ciclo di lezioni non fu mai realmente professato da Freud, a causa del tremendo cancro alla mascella che

    gli impediva finanche la parola.


    vita familiare, riceviamo le tavole morali che regolano la nostra esistenza. È così che il cielo e la terra (gli astri e la prassi morale) si toccano.

    Ora, il marxismo, che si affaccia sul limite estremo di queste lezioni, è una Weltanschauung. Con tutti i difetti di questo tipo di costruzione intellettuale. In fin dei conti, insinua Freud, si tratta di una religione. Ogni Weltanschauung, sostiene, è nella sostanza una religione. E tuttavia questo non gli impedisce di considerare il fenomeno con la massima serietà (Cfr. Ibíd., p. 609). Le riserve, per uno che ostentava la propria ignoranza filosofica, appaiono subito puntuali, addirittura tecniche.

    La prima riguarda il carattere “storico-naturale” (naturgeschichtlich) del “processo evolutivo delle forme sociali”. Freud manifesta al riguardo le sue “perplessità” perché non crede che la “logica” delle Gesellschaftsformen risponda a quest’ordine di necessità. Non c’è nessuna logica, né storica né naturale, che presiede allo svolgimento delle formazioni sociali, se non quella tipicamente “psicologica” che si basa sui rapporti di forza tra i gruppi umani. Dapprincipio, argomenta, le “differenze sociali” furono “differenze di stirpe o di razza”. Domina il gruppo più forte, ma in ciò non vi è alcuna necessità, bensì solo cruda e insondabile realtà. Anche la base economica di un gruppo dipende da questa differenza di potenziale psichico.

    La seconda riserva fondamentale riguarda le modalità di questo supposto svolgimento. Freud si riferisce al processo dialettico, che definisce un sedimento, un’eco, un riflesso (Niederschlag) di quell’”oscura filosofia hegeliana”, di cui è figlio anche Marx.

    In sintesi, le forme sociali non obbediscono ad alcun tipo di “determinismo” e non sortiscono le une

    dalle altre auf dem Weg eines dialektischen Prozesses (Ibíd., p. 610).

    Senza volerlo e senza averne la minima consapevolezza, questa posizione di Freud, espressa nel 1932, lo stesso anno in cui vedono la luce le Frühschriften di Marx, si inserisce di fatto nel vorticoso dibattito sul marxismo ortodosso che prende le mosse dalla Seconda Internazionale. Determinismo (“crollismo”) e metodo dialettico sono concetti all’ordine del giorno. Ma la cosa più interessante, a parte queste meditate riserve concettuali, è il modo in qui Freud si “apre” al regime bolscevico, che definisce un “magnifico tentativo” (großartiger Versuch) o anche, semplicemente (ma sintomaticamente), Experimentk (Ibíd., p. 614).

    Qui non può sfuggire il fatto che il marxismo, nonostante l’appartenenza al novero delle Weltanschauungen, presenta anche caratteristiche opposte. Come Experiment esso si apre al futuro, proprio come la scienza, la cui frammentarietà non è un segno di debolezza, ma la garanzia di un rapporto più intenso con la realtà. Queste parole del vecchio Freud, vecchio e malato, devono far riflettere: “In un’epoca in cui le grandi nazioni demandano la propria salvezza all’esclusivo mantenimento della pietà cristiana, il rivolgimento in atto in Russa (malgrado tutti i suoi aspetti incresciosi) si impone come il messaggio di un futuro migliore” (Ibídem).

    Una Weltanschauung non ha alcun rapporto col futuro. Lo vieta la sua coerenza interna, la sua strutturale compiutezza. Ogni religione è un sistema chiuso. E ora l’ortodossia minaccia di trasformare il marxismo in una Weltanschauung. In queste pagine, Freud sembra augurarsi il contrario. Il clima astioso della Massenpsychologie è scomparso del tutto. In quel testo il comunismo della Räterrepublick si celava dietro il mito della Urhorde. Il comunismo è una regressione, giacché nei suoi contrassegni ideologici riaffiorano le potenti dinamiche dell’orda primordiale. Nel Disagio la scena cambia completamente. La Gemeinschaft deve sostenere i propri diritti contro i pericoli dell’individualismo. Qui l’obiettivo polemico non è più il comunismo, ma il liberalismo economico o meglio il liberismo finanziario. Nelle pagine del Trentadue l’apertura al comunismo sovietico procede di pari passo con la speranza che, nel tempo a venire, possa instaurarsi la “dittatura dell’intelletto sulla vita psichica umana” (Ibíd., p. 604). A ben vedere,


    questa è una intrigante definizione del comunismo. Il quale, rettamente inteso, si restringe a questo, al dominio della ragione politica sul groviglio degli istinti economici. On ne pense qu’au sexe comme on ne pense qu’à l’argent (Vaysse: 1999, p. 61).

    Tra gli effetti di questa Diktatur il più notevole, anche se non è il più evidente, mi pare il sentimento della “sottomissione” (Unterwerfung) (Freud: 2010, p. 594). La sottomissione è forse la caratteristica più essenziale, la più fonda, dello spirito scientifico. La scienza fa poco e niente per liberare l’uomo dalle sofferenze. Procede per piccoli passi e sovente torna indietro. Marx diceva la stessa cosa delle rivoluzioni proletarie (quelle borghesi, invece, procedono di gran lena, spinte dal turbine effimero dell’entusiasmo) (Cfr. Marx: 2007, pp. 13-14). In generale, così la vede Freud, non ci sono ricette scientifiche per la felicità. Solo la religione pretende di averne. D’altra parte, anche la religione richiede la sottomissione. Gli arabisti ci insegnano che la parola islam ha precisamente questo significato. Ma sotto la stessa forma, lo stesso involucro, il senso di questa parola appare completamente diverso. Una cosa è arrendersi all’impossibilità della perfezione, altra cosa è soggiacere alla sua illusione. Al primo atteggiamento corrisponde il senso del futuro, al secondo il dominio del passato.


    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Año 23, n° 80


Esta revista fue editada en formato digital y publicada en febrero de 2018, por el Fondo Editorial Serbiluz, Universidad del Zulia. Maracaibo-Venezuela


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